Carta eurasiatica della multipolarità e della diversità nel XXI secolo
articolo di M.V. Ryzhenkov Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Bielorussia dall'agosto 2025
Una delle iniziative associate alla Belarus che ha recentemente suscitato notevole interesse è l’idea di elaborare una Carta eurasiatica della diversità e della multipolarità nel XXI secolo. Questa proposta è stata presentata per la prima volta durante la Conferenza internazionale sulla sicurezza eurasiatica, tenutasi a Minsk nell’ottobre 2023, quando la Repubblica di Belarus ha suggerito di sviluppare tale Carta come una guida per la nostra coesione e per uno sviluppo comune e progressivo.
L’iniziativa non è sorta dal nulla. Al contrario, essa è stata una risposta a concrete esigenze e aspirazioni geopolitiche. Inoltre, essa rappresenta uno sviluppo logico di un’altra importante proposta avanzata in precedenza dalla Belarus, che invitava i Paesi del mondo a riconoscere la molteplicità dei percorsi verso lo sviluppo progressivo. Questo appello fu lanciato per la prima volta dal Presidente della Belarus, Alexander Lukashenko, durante il Vertice delle Nazioni Unite del 2005.
L’iniziativa a favore della diversità fu avanzata in un periodo di profonda incertezza globale, causata dal cosiddetto "momento unipolare", caratterizzato da unilateralismo e da un sistematico disprezzo del diritto internazionale. In questo contesto, attraverso la sua proposta, la Belarus cercava di contribuire agli sforzi di altri Stati per costruire un ordine internazionale più giusto, in cui i Paesi potessero convivere pacificamente e perseguire liberamente i propri obiettivi.
Tuttavia, il mondo odierno appare ancor più incerto rispetto a quello del periodo unipolare. In effetti, esso risulta persino più instabile di quanto non fosse quattro decenni fa, poiché, malgrado la contrapposizione ideologica e geopolitica, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti riuscivano a coesistere in una sorta di equilibrio che garantiva stabilità e prevedibilità, elementi fondamentali per la pace e lo sviluppo. Al contrario, il disordine generato durante il momento unipolare — guerre, conflitti, gravi violazioni del diritto internazionale, migrazioni di massa — continua a dominare la scena internazionale, anche a causa del crescente ricorso a politiche unilaterali da parte dei Paesi occidentali.
In questo contesto, la Belarus ha proposto l’elaborazione della Carta eurasiatica. Tale iniziativa si fonda su numerosi sforzi precedenti della Belarus, oltre a quello già menzionato sulla diversità, tra cui spicca il recente appello
del Presidente A.G. Lukashenko per l’avvio di un dialogo globale sulla sicurezza, nello spirito autentico di San Francisco. Tutte queste iniziative mirano a contribuire alla costruzione di un mondo più sicuro nel suo insieme, e dell’Eurasia in particolare.
«Molti potrebbero chiedersi perché la Carta ruoti attorno ai concetti di “diversità” e “multipolarità”. In sintesi, perché questi due concetti rappresentano le caratteristiche distintive della nostra epoca».
È vero che la diversità ha sempre caratterizzato il mondo, ma oggi la sua rilevanza diventa sempre più evidente a fronte della rapida diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che permettono ai popoli di tutto il mondo di percepire e comprendere meglio le differenze tra civiltà. Di conseguenza, cresce la richiesta di un maggiore rispetto per la diversità, concetto messo a repentaglio negli ultimi decenni dalle politiche di imposizione, dalla violenza, dalle sanzioni, dalle rivoluzioni colorate e da altri tentativi dei Paesi occidentali di imporre modelli di governance “pseudo-universali”, estranei alle istituzioni locali e ai modelli di vita tradizionali.
Per quanto riguarda la multipolarità, vi è un consenso crescente a livello globale sul fatto che essa sia ormai una realtà oggettiva. La fine del momento unipolare ha infatti segnato l’emergere di molteplici centri di potere – o poli – che oggi influenzano la vita internazionale. Inoltre, siamo fermamente convinti che il rafforzamento della multipolarità sia indispensabile per un multilateralismo efficace, in cui tutti i Paesi del mondo possano cooperare su base di uguaglianza e reciproco vantaggio.
L’idea della Carta è già stata oggetto di discussione in vari forum internazionali, riscuotendo un interesse crescente. È significativo che i Presidenti della Belarus e della Federazione Russa abbiano espresso pubblicamente il proprio sostegno all’iniziativa.
La Belarus e la Russia hanno delineato le loro “prime considerazioni” sulla Carta in un documento intitolato “Visione comune della Carta eurasiatica della diversità e della multipolarità nel XXI secolo”. Questo documento, articolato in 21 paragrafi, presenta, tra l’altro, l’interpretazione congiunta dei concetti di diversità e multipolarità, la valutazione del ruolo dell’Eurasia nei processi globali, e le misure previste per attuare questa visione condivisa.
Nonostante l’intensa attività in corso attorno alla Carta, a Minsk si avverte la sensazione che i nostri partner eurasiatici desiderino maggiore chiarezza riguardo all’iniziativa, in particolare per quanto concerne il suo fondamento geopolitico, gli obiettivi, il processo di elaborazione e altri aspetti. Sebbene la
sopracitata “Visione comune” offra alcune risposte in tal senso, riconosciamo la necessità di fornire una risposta più sostanziale e dettagliata, soprattutto alla luce degli attuali sviluppi geopolitici in Eurasia.
Eurasia: l’Europa si sta finalmente avvicinando all’Asia o si sta allontanando da essa?
L’uso del concetto di Eurasia è divenuto relativamente di moda solo di recente. E in effetti, si tratta di un supercontinente che copre una parte considerevole del globo e ospita circa il 70% della popolazione mondiale. L’Eurasia è una regione estremamente diversificata sotto il profilo delle civiltà, delle etnie, delle culture, delle religioni, dei valori, degli Stati e dei loro sistemi politici, economici e sociali. È importante notare che oggi essa rappresenta anche un motore fondamentale dello sviluppo economico globale, poiché ospita alcuni dei Paesi e blocchi economici regionali più dinamici al mondo.
Tuttavia, solo pochi decenni fa, il concetto di Eurasia difficilmente avrebbe goduto di simile popolarità nel lessico politico e accademico. Fino a tempi relativamente recenti, tale fenomeno sarebbe potuto sembrare paradossale, poiché l’Eurasia era percepita come un continente che, in realtà, conteneva due mondi distinti: l’Europa e l’Asia. Sebbene il confine tra Europa e Asia sia sempre stato vago e in larga misura simbolico, la divisione tra le due regioni era reale – sicuramente sul piano politico e temporale, ma anche in certa misura su quello fisico, vista la scarsa interconnessione infrastrutturale e la limitata cooperazione tra le parti.
Questa separazione politica affonda le sue radici in una lunga storia di politiche predatorie condotte dall’Europa occidentale nei confronti dell’Asia, motivate dal desiderio di dominare e sfruttare le nazioni asiatiche. Ciò che colpisce è che, da allora, non si siano verificati cambiamenti sostanziali nella visione europea dell’Asia. Ancora oggi, l’Unione Europea tende a percepire l’Asia come un rivale e una potenziale minaccia ai propri interessi, mentre le nazioni asiatiche non hanno mai adottato una visione simile nei confronti dell’Europa.
Diversi fattori hanno consentito all’Europa di acquisire un netto vantaggio sull’Asia. Uno di essi è stata la rivoluzione industriale, che ha permesso agli Stati europei di svilupparsi rapidamente e di imporsi militarmente e tecnologicamente. L’Asia, invece, come suggerisce la narrazione prevalente, ha mantenuto le sue “vie tradizionali”, perdendo così le prime fasi della rivoluzione industriale e subendo il dominio coloniale. Il risultato fu che, all’inizio del XIX secolo, si aprì un divario nello sviluppo tra Europa e Asia, divario che si è allargato nel corso del XIX secolo e della maggior parte del XX secolo.
Tuttavia, vi era la speranza che, grazie al risveglio del nazionalismo asiatico e al progresso tecnologico globale, col tempo potesse realizzarsi una convergenza tra Europa e Asia. Tutto dipendeva da quando e in che modo l’Asia sarebbe riuscita a colmare il ritardo. La fine degli imperi coloniali europei in Asia dopo la Seconda guerra mondiale fu un primo passo in questa direzione. Poco dopo, alcune nazioni asiatiche iniziarono a cooperare attivamente per promuovere priorità di sviluppo comuni. Il caso più emblematico è la nascita dell’ASEAN nel 1967: un’organizzazione composta da dieci Stati membri che da decenni persegue con successo i propri obiettivi.
La fine della guerra fredda e l’accelerazione della globalizzazione – accompagnata dalla diffusione del libero commercio, della conoscenza, dei flussi finanziari, degli investimenti e delle tecnologie – hanno fornito ulteriore impulso agli sforzi asiatici per colmare il divario. L’esternalizzazione della produzione da parte dei Paesi sviluppati ha permesso a molte economie asiatiche di crescere a doppia cifra per lunghi periodi, contribuendo a sollevare centinaia di milioni di persone dalla povertà.
Inoltre, negli ultimi decenni, l’Europa e l’Asia sono divenute strettamente interconnesse attraverso numerose catene del valore, corridoi di trasporto, collegamenti aerei, terrestri e marittimi, sistemi bancari, scambi culturali, e così via. Questi sviluppi hanno trasformato profondamente l’Asia, rendendola irriconoscibile rispetto al passato. Al tempo stesso, anche l’Europa è stata trasformata da tali processi, poiché le tendenze globali hanno contribuito a ridurre la sua influenza nel mondo, accrescendo nel contempo la sua dipendenza dalle potenze eurasiatiche.
Anche lo spazio post-sovietico ha conosciuto, negli ultimi trent’anni, intensi processi di integrazione e sviluppo. Alcuni ex Stati sovietici hanno adottato il modello di integrazione europea come riferimento per i propri progetti regionali, oggi spesso ignorati dai Paesi dell’Unione Europea, i quali evitano sistematicamente ogni interazione con l’Unione Economica Eurasiatica e con le altre strutture di cooperazione nate nell’area post-sovietica. A volte si raggiungono livelli paradossali, come dimostra il caso di un Paese baltico confinante con la Belarus, che ha deliberatamente inasprito i propri rapporti con la Cina. In ogni caso, le nuove strutture di integrazione nate sul territorio dell’ex URSS si sono armoniosamente inserite nel contesto della rinascita asiatica, diventando parte della nascente architettura eurasiatica di cooperazione.
Di conseguenza, il divario nello sviluppo che ha separato l’Europa dall’Asia per quasi due secoli si sta riducendo costantemente ed è oggi molto meno
rilevante rispetto al passato. In tale contesto, è diventato plausibile considerare l’Europa e l’Asia come un unico continente, come un’unica entità, e riflettere in termini di una Eurasia integrata, che si estende da Lisbona a Manila. Uno degli esempi più significativi e concreti di questa nuova realtà è l’iniziativa cinese “Belt and Road” (Una cintura, una via), che rappresenta un tentativo di rinascita dell’antica Via della Seta attraverso il collegamento di decine di Paesi asiatici ed europei, affinché tutti possano condividere i benefici dello sviluppo economico e della prosperità. La Belarus, insieme ad altri Paesi europei, trae vantaggio da questa vitale iniziativa transcontinentale.
A causa dello sviluppo storicamente squilibrato tra Europa e Asia, i Paesi e i popoli dell’Eurasia non hanno potuto sfruttare appieno il potenziale offerto dalle risorse di questo vastissimo continente. Inoltre, non hanno mai goduto di un sistema di sicurezza pan-eurasiatico che consentisse loro di perseguire efficacemente le proprie priorità di sviluppo. Il panorama della sicurezza nel continente è sempre stato segmentato e frammentato, come dimostrato anche nel contesto dell’OSCE. Di conseguenza, difficilmente si trova un altro continente che abbia vissuto un numero così elevato di conflitti armati e sofferenze umane come l’Eurasia.
Pertanto, l’Eurasia rappresenta oggi uno spazio di opportunità straordinarie per i suoi Stati e i suoi popoli. La realizzazione di tale potenziale passa necessariamente attraverso approcci globali e inclusivi, che tengano conto dell’integrità, dell’unicità, della complessità e della diversità del continente, e che promuovano la coesione e l’integrazione eurasiatica nell’interesse delle sue popolazioni. La Belarus è convinta che tale obiettivo possa essere perseguito attraverso l’elaborazione della Carta eurasiatica della diversità e della multipolarità nel XXI secolo.
Ma prima di analizzare più in dettaglio i singoli elementi della Carta, appare opportuno considerare alcune esperienze storiche che hanno cercato di promuovere la coesione dell’Eurasia o di sue parti. La conoscenza di tali precedenti potrà contribuire a comprendere meglio il senso dell’idea della Carta e le modalità per la sua concreta realizzazione.
Esperimento CSCE/OSCE o strumento occulto dell’Occidente?
Negli ultimi cinquant’anni in Eurasia si è svolto un esperimento di particolare interesse, tendente alla consolidazione non dell’intero continente, bensì di alcune sue parti: il funzionamento della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), successivamente trasformata nell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Esso rappresentava, in sostanza, un esperimento eurocentrico — o, se preferite, euro-atlantico — rivelatore della divisione allora esistente tra Europa e Asia, ormai superata.
In origine si trattava di un’iniziativa pragmatica e reciprocamente vantaggiosa, che apportò risultati importanti, in primo luogo nella riduzione della minaccia di guerra nucleare e convenzionale in Europa, nella creazione di meccanismi di controllo degli armamenti e nel rafforzamento della fiducia e della comprensione reciproca tra le parti.
Alla base del processo vi era la convinzione che fosse possibile non solo riconciliare i due blocchi ideologici europei, bensì anche instaurare tra essi un modello di cooperazione pragmatica, prevedibile e degna di fiducia. Il merito di questa visione va riconosciuto alla leadership sovietica dell’epoca, che ne avanzò l’idea già a metà degli anni Sessanta, proponendo l’avvio di un processo di dialogo con i partner occidentali.
L’iniziativa trovò riscontro nei circoli decisionali occidentali solo qualche anno dopo, all’inizio degli anni Settanta, quando gli Stati Uniti adottarono la politica di distensione e in alcune nazioni chiave dell’Occidente emersero leader “non convenzionali”, come Willy Brandt nella Germania Ovest. In questo contesto, il Atto Finale di Helsinki del 1975 e la CSCE sono giustamente considerati figli della distensione.
Dal punto di vista storico, l’Atto Finale di Helsinki fu caratterizzato da due realizzazioni fondamentali. In primo luogo, conteneva un Decalogo di dieci principi di natura pragmatica, formulati con equilibrio, che permisero ai due blocchi antagonisti di assumere gli impegni nella loro interezza. In secondo luogo, introdusse una nuova concezione della sicurezza articolata in tre “panieri”: politico-militare, economico-ambientale e umanitario. Ciò consentì alle parti contrapposte di non vedersi unicamente attraverso la lente della sicurezza militare o politica.
Il Decalogo e il concetto di sicurezza comprensiva generarono una struttura in forma di conferenza che giocò un ruolo cruciale nel dirigere, sostenere e normalizzare i rapporti tra gli Stati partecipanti durante la Guerra Fredda, in un contesto di ostilità e incertezza. Attraverso contatti regolari, scambi, misure di fiducia ecc., fu possibile rendere in parte prevedibili le interazioni tra Est e Ovest. Si può dunque affermare che la CSCE svolse un ruolo significativo nel «gestire» la Guerra Fredda e nel ridurre il rischio di un Armageddon nucleare.
«Questa iniziativa lungimirante avrebbe potuto persistere anche dopo la Guerra Fredda. Tuttavia, le grandi aspettative di quel periodo rimasero
disattese, poiché alcuni Stati partecipanti decisero di promuovere i propri interessi egoistici, a discapito degli altri, nel nuovo contesto istituzionale».
Con la fine del bipolarismo, la CSCE fu chiamata ad adattarsi ai nuovi scenari. Gli anni Novanta iniziarono con una nuova distensione — differente da quella degli anni Settanta — che potremmo definire l’avvio di un partenariato strategico. Tale visione fu sancita nella Carta di Parigi del 1990.
Ne seguì la trasformazione istituzionale: la CSCE divenne ufficialmente OSCE, e furono creati diversi organi — tra cui l’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR), l’Alto Commissario sui diritti delle minoranze e numerose missioni sul campo. L’OSCE concentrò le proprie attività su democratizzazione, buona governance, diritti umani, osservazione elettorale, prevenzione e risoluzione dei conflitti. Tuttavia, queste nuove strutture e missioni sul terreno, pur centrali, hanno finito per politicizzare l’Organizzazione, compromettendo la sua imparzialità originaria.
Si è progressivamente affermata la percezione che l’OSCE fosse eccessivamente “gravata” da attività operative sul campo, al punto da compromettere la sua rilevanza. Le missioni vennero dispiegate soprattutto a est di Vienna, non in Europa occidentale, generando l’impressione che i Paesi occidentali fossero esenti da problemi di diritti umani o di minoranze, introducendo di fatto una graduatoria tra Stati partecipanti, inaccettabile nel quadro della CSCE.
In teoria, le missioni dovevano promuovere riforme negli Stati ospitanti. In pratica, però, con il mandato umanitario, le missioni iniziarono a interferire negli affari interni, diffondendo agende e narrazioni promosse dai Paesi occidentali, configurando l’OSCE come promotrice di visioni proprie di istituzioni come NATO, UE, OCSE. In sintesi, l’OSCE divenne un attore internazionale mosso da pulsioni di parte, rinunciando alla neutralità che le spettava.
La Repubblica di Belarus fu tra le realtà ad affrontare questa dinamica in negativo. Accettò una missione dell’OSCE a Minsk nel 1998, con mandato di consulenza e sostegno nella democratizzazione e nello sviluppo istituzionale, ma la missione si schierò: al comando c’era un ambasciatore tedesco che collaborò attivamente con l’opposizione per favorirla nelle elezioni presidenziali del 2001. La Belarus dovette chiedere il ritiro del capo missione e, alcuni anni dopo, chiuse la missione stessa, ritenendola non utile al proprio sviluppo interno.
Ciò ha creato una situazione paradossale: la CSCE affrontò con successo le sfide del suo tempo, in un contesto instabile, mentre l’OSCE — in un contesto globale più favorevole — non riuscì a fare altrettanto. Oggi l’OSCE ha perso la sua funzione di forum di dialogo politico, trasformandosi in luogo di politizzazione e strumento di pressione tra Stati. Non ha mantenuto la sua promessa di sicurezza indivisibile, sancita ad Helsinki, contribuendo (tra le altre crisi) all’attuale conflitto in Ucraina.
Occorre riconoscere che l’OSCE è stata in parte “strumentalizzata” da alcuni Stati occidentali per intervenire negli affari interni di partner che non hanno accettato ricette esterne. Inoltre, ha supportato l’espansione della NATO verso est, intervenendo perfino nelle ex repubbliche jugoslave, contribuendo a un’identità frammentata dell’Organizzazione e alla perdita di fiducia tra i suoi Stati membri, rendendo l’OSCE sempre meno rilevante.
Strategie chiave per l’Eurasia dopo la fine della Guerra Fredda
Mentre l’esperimento della CSCE/OSCE può essere considerato un tentativo fallito di consolidare solo una parte dell’Eurasia, il periodo successivo alla Guerra Fredda ha visto l’emergere di alcune idee e strategie orientate all’intero spazio eurasiatico. Particolarmente degno di nota è il fatto che alcune tra le più influenti e coerenti tra queste strategie siano state promosse da una potenza esterna: gli Stati Uniti d’America.
La fine della Guerra Fredda creò una situazione nella quale gli Stati Uniti rimasero l’unica superpotenza globale. Di conseguenza, Washington si mise alla ricerca di un nuovo orientamento strategico, poiché il precedente paradigma — quello del contenimento, concepito per l’epoca della Guerra Fredda — risultava ormai obsoleto. Il nuovo orientamento fu formalmente presentato nel settembre 1993 da Anthony Lake, allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente Clinton, nel celebre discorso intitolato "From Containment to Enlargement" (“Dal contenimento all’allargamento”).
Questa nuova strategia, che si presentava come l’erede del contenimento, mirava a espandere la "comunità globale delle democrazie di mercato". Si trattava chiaramente di un’idea ispirata al celebre concetto di Francis Fukuyama sulla "fine della storia", poiché ignorava deliberatamente la straordinaria diversità del mondo in termini di sistemi politici, economici, culturali e sociali. Al contrario, si presumeva che ogni Paese del mondo volesse — o dovesse essere costretto a — adottare la cosiddetta democrazia e un’economia di mercato.
A tutti gli effetti, il discorso di Lake divenne la guida spirituale della politica americana nel mondo post-Guerra Fredda. L’idea dell’"allargamento" aprì la strada a un’estensione della NATO verso est, all’interferenza negli affari interni di numerosi Stati, ai tentativi di "democratizzazione forzata", alle "rivoluzioni colorate", che a loro volta innescarono guerre e conflitti in diverse regioni. È proprio in virtù di tale idea che, nel periodo successivo alla Guerra Fredda, il mondo fu testimone della disgregazione di diversi Stati, della comparsa di decine di milioni di sfollati e di molteplici sconvolgimenti.
Va sottolineato che questa strategia non fu concepita esclusivamente per l’Eurasia. Tuttavia, non vi è dubbio che proprio in Eurasia essa sia stata implementata con maggiore zelo, in luoghi come i Balcani, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Ucraina, ritenuti di fondamentale importanza per gli sforzi di lungo periodo degli Stati Uniti volti ad assicurare una posizione dominante nel continente eurasiatico. A posteriori, è evidente che tale strategia ha inoltre contribuito a radicare stabilmente l’Europa nella sfera d’influenza statunitense.
Come molti altri Stati eurasiatici, anche la Repubblica di Belarus è stata oggetto dell’applicazione di questa strategia. Essa è stata solitamente impiegata con maggiore intensità in occasione dei vari appuntamenti elettorali. L’ultimo tentativo in tal senso si è avuto durante le elezioni presidenziali del 2020. Tuttavia, ogni sforzo di interferenza esterna nei confronti della Belarus è fallito, per il semplice motivo che il popolo bielorusso ha sostenuto con fermezza la propria leadership legittima, respingendo ogni forma di manipolazione da parte di forze esterne.
Un ulteriore “contributo” agli sforzi esterni per la consolidazione dell’Eurasia fu offerto da Zbigniew Brzezinski, già Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente Jimmy Carter. Nel 1997 la rivista Foreign Affairs pubblicò il suo articolo, fortemente provocatorio, intitolato "A Geostrategy for Eurasia" (“Una geostrategia per l’Eurasia”).
La tesi centrale dell’autore era che, dopo essersi affermata come unica superpotenza globale, l’America avrebbe dovuto elaborare e attuare una strategia globale e comprensiva per l’Eurasia, al fine di preservare la propria supremazia planetaria. In tal modo, il pensatore politico americano riconosceva, in sostanza, che il primato mondiale degli Stati Uniti dipendeva fortemente dagli eventi che si svolgevano ben lontano dalle coste americane.
Brzezinski considerava l’Eurasia come il continente cardine del mondo, dotato di un’enorme influenza sugli altri spazi geopolitici, e riteneva che qualsiasi Stato dominante in Eurasia avrebbe inevitabilmente controllato anche il Medio Oriente e l’Africa. Per tale ragione, affermava che la sola elaborazione di
strategie separate per Europa e Asia non sarebbe stata sufficiente. Solo una strategia americana integrata e globale avrebbe potuto impedire la formazione in Eurasia di una coalizione ostile capace di sfidare la leadership statunitense. Secondo Brzezinski, gli Stati Uniti dovevano dominare e controllare l’Eurasia, consolidando il proprio ruolo di arbitro nella politica eurasiatica.
La domanda era: come realizzare questi obiettivi? La risposta, secondo Brzezinski, consisteva nella creazione di un sistema di sicurezza trans-eurasiatico guidato dalla NATO, che avrebbe garantito la presenza e l’influenza degli Stati Uniti nel continente. Nella sua visione, l’Europa costituiva il trampolino di lancio dell’America in Eurasia, e per questo era essenziale continuare a espandere il “ponte europeo” delle democrazie. Quanto alla Russia, Brzezinski la considerava chiaramente un potenziale avversario futuro, a causa della sua posizione centrale nel continente. Come “soluzione” per la Russia, proponeva la frammentazione dello Stato in tre entità confederate: la Russia Europea, la Russia Siberiana e la Russia dell’Estremo Oriente.
Con il senno di poi, possiamo affermare che i piani di Brzezinski sono stati attuati con una certa coerenza dai decisori politici statunitensi. In effetti, l’allargamento della NATO ha seguito le fasi esattamente delineate nell’articolo pubblicato su Foreign Affairs.
Pertanto, se la visione di Anthony Lake ha fornito l’ispirazione ideologica alla politica americana verso l’Eurasia, le proposte di Zbigniew Brzezinski hanno offerto una guida pratica alla sua attuazione. È superfluo sottolineare che le idee di entrambi si sono rivelate estremamente dannose per il supercontinente eurasiatico, per i suoi Paesi e per le sue popolazioni.
Tuttavia, vi è un punto in cui Brzezinski sembra aver colto nel segno, ovvero quando affermava che "la definizione della natura e l’istituzionalizzazione della forma di un sistema di sicurezza trans-eurasiatico dovrebbe diventare la principale iniziativa architettonica del XXI secolo".
La necessità di un ordine eurasiatico
Come è stato dimostrato nelle sezioni precedenti, negli ultimi cinquant’anni sono stati compiuti diversi tentativi di consolidare alcune parti dell’Eurasia o l’intero supercontinente. Tuttavia, questi sforzi si sono rivelati fallimentari. In realtà, erano destinati al fallimento fin dall’inizio, poiché avevano come obiettivo la formazione dell’Eurasia — o di sue porzioni — secondo le visioni e gli interessi di attori esterni, anziché sulla base delle priorità dei soggetti locali. Non sorprende, dunque, che i “prescritti” esterni non abbiano potuto
radicarsi in un contesto a essi estraneo. Ciò vale sia per l’esperimento della CSCE/OSCE, sia per la politica statunitense verso l’Eurasia nel periodo post-Guerra Fredda.
Tuttavia, in una prospettiva retrospettiva, si potrebbe sostenere con una certa legittimità che proprio questi fallimenti abbiano svolto una funzione utile. Hanno infatti contribuito ad aiutare molti Stati eurasiatici a liberarsi dell’illusione di poter trarre beneficio da un presunto ordine mondiale liberale guidato dagli Stati Uniti. Al contrario, tali Stati hanno iniziato a comprendere la necessità di affrontare i problemi contemporanei a partire dal livello regionale.
Di conseguenza, numerosi Paesi eurasiatici hanno iniziato a coagulare i propri sforzi attorno all’urgenza di resistere alle pressioni esterne e collaborare al fine di promuovere interessi comuni all’interno della loro vasta regione. Il partenariato strategico tra Cina e Russia, due potenze chiave dell’Eurasia, è diventato un fattore determinante nell’attivazione di questa nuova dinamica regionale, in quanto entrambe rappresentano motori fondamentali di iniziative e visioni volte a rafforzare l’integrazione e la coesione eurasiatica.
È significativo che questa dinamica interna all’Eurasia si sia sviluppata proprio nel momento in cui la globalizzazione a livello globale ha iniziato a indebolirsi. In effetti, il mondo non è diventato “piatto”, come aveva previsto lo scrittore americano Thomas Friedman nel suo celebre best-seller The World is Flat (2005). Al contrario, l’economia globale ha preso la forma di una strada accidentata.
In particolare, la globalizzazione economica ha cominciato a perdere slancio già nel 2008, con l’inizio della crisi economica e finanziaria globale, che ha messo in luce la natura del capitalismo americano, non regolamentato e predatorio, rivelandone le conseguenze negative sull’economia mondiale. Negli anni successivi è divenuto sempre più evidente che la globalizzazione economica basata su quel modello di capitalismo non rappresentava affatto “l’onda che solleva tutte le barche”, poiché le disuguaglianze globali hanno continuato ad aumentare in modo costante.
Oggi, non sono soltanto i Paesi in via di sviluppo ad aver perso fiducia nella globalizzazione economica. Anche coloro che storicamente ne sono stati i più ferventi sostenitori, come gli Stati Uniti, hanno cambiato rotta. L’ex promotore di mercati aperti e dell’economia del laissez-faire non sostiene più il libero commercio né il multilateralismo. Al contrario, gli USA stanno adottando una strategia di ritorno all’interno, promuovendo una reindustrializzazione nazionale, imponendo dazi estesi su quasi tutti i partner commerciali globali,
parlando apertamente di “decoupling” e “de-risking”, e orientando la loro politica estera intorno alla protezione della classe media americana.
Se gli Stati Uniti dovessero effettivamente scegliere la via dell’introspezione e rinunciare a esercitare una supremazia globale, ciò rappresenterebbe indubbiamente uno sviluppo positivo. Un simile passo segnerebbe, in sostanza, il riconoscimento, seppur tardivo, della realtà: il cosiddetto ordine internazionale liberale guidato dagli USA sta crollando sotto il peso delle proprie contraddizioni e viene sempre più sostituito da dinamiche regionali.
Tale evoluzione fu prefigurata con notevole lucidità già un decennio fa da uno dei decani della diplomazia mondiale, Henry Kissinger, nel suo libro World Order (2014). Due passaggi dell’opera meritano particolare attenzione. In primo luogo, Kissinger spiegava perché un ordine globale unico fosse irrealizzabile, osservando che: “nessuna società ha mai posseduto abbastanza potere, nessuna leadership abbastanza stabilità e nessuna fede abbastanza vitalità per imporre le proprie regole a livello mondiale e per un periodo prolungato”. Questo presupposto ha portato Kissinger a proporre l’idea di sviluppare concetti di ordine su base regionale e di connettere questi ordini regionali tra loro.
Noi, in Belarus, condividiamo pienamente questa visione di un mondo basato su ordini regionali autonomi, che cooperano tra loro per garantire stabilità e prevedibilità. Questa convinzione si fonda sulla nostra lettura della realtà contemporanea: con il declino dell’ordine liberale internazionale, non può più esserci un sistema gerarchico unico con un solo centro di potere dominante.
Carta eurasiatica per la formazione di un ordine eurasiatico
L’Eurasia ha bisogno di un ordine regionale che possa aiutare gli Stati eurasiatici a superare il disordine globale attuale. Ma come costruirlo? Forse, l’idea della Belarus di elaborare una Carta eurasiatica della diversità e del multipolarismo nel XXI secolo può rivelarsi tempestiva e utile a tale scopo. A nostro avviso, la Carta può realmente fungere da guida pratica per i Paesi eurasiatici nei loro sforzi volti a stabilire un ordine continentale eurasiatico e, considerata l’importanza strategica del supercontinente, contribuire a connettere quest’ordine con quelli di altre regioni del mondo.
In sostanza, consideriamo la Carta come una sorta di strategia geostrategica olistica e coerente a lungo termine per il nostro supercontinente, in tutte le sue dimensioni: sicurezza, economia, scienza, tecnologia, cultura, civiltà e altri ambiti. Come ogni documento strategico, essa deve poggiare su alcuni principi e pilastri fondamentali. Ne prevediamo i seguenti.
In primo luogo, la Carta deve essere un'iniziativa costruttiva, non rivolta contro alcuno Stato o gruppo di Stati, né finalizzata ad avvantaggiare un gruppo a discapito di altri. Tale logica rappresenterebbe una rottura radicale con le precedenti strategie ostili e conflittuali applicate all’Eurasia nel passato. Inoltre, la Carta eurasiatica dovrebbe fondarsi sulle norme e i principi del diritto internazionale sanciti nella Carta delle Nazioni Unite e in altri strumenti giuridici internazionali vincolanti.
In secondo luogo, la Carta deve essere un processo “locale”, ovvero uno sforzo intrapreso esclusivamente dai Paesi dell’Eurasia. Gli attori locali conoscono meglio di chiunque altro i propri interessi, sanno individuare obiettivi comuni, strumenti condivisi per raggiungerli e sono più capaci di attuare in modo efficace gli impegni assunti. Il passato è un buon maestro: ha dimostrato chiaramente che le soluzioni imposte all’Eurasia da attori esterni non hanno mai attecchito, essendo estranee alla realtà del continente.
In terzo luogo, la Carta deve essere un processo collettivo. Deve cioè essere redatta e discussa congiuntamente dagli Stati eurasiatici. Siamo pienamente convinti che ogni Paese debba sentirsi partecipe di questo documento, riconoscere al suo interno i propri interessi e vedere riflesse le proprie priorità. Solo in tal modo ogni Stato sarà motivato a contribuire alla sua attuazione.
In quarto luogo, la Carta deve essere un processo inclusivo. Le negoziazioni dovrebbero essere aperte a tutti i Paesi dell’Eurasia. La logica è semplice: tutti gli Stati eurasiatici hanno interesse in un supercontinente pacifico e prospero. Tuttavia, al momento appare dubbio che i Paesi europei membri della NATO e i loro partner desiderino partecipare a questo processo. Eppure, tali potenziali esclusi dovrebbero interrogarsi sulle conseguenze a lungo termine di una simile scelta, alla luce delle rapide trasformazioni globali e regionali.
L’Europa è, indubbiamente, un esempio riuscito di integrazione e consolidamento. In alcuni aspetti, si avvicina al concetto di "Stati Uniti d’Europa", un'idea profetizzata da Victor Hugo al Congresso Internazionale della Pace di Parigi nel 1849. Tuttavia, il successo europeo è stato reso possibile da fattori molto specifici: l’immensa ricchezza accumulata in secoli di colonizzazione, il “paracadute” di sicurezza offerto dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, il libero commercio e l’accesso a risorse a basso costo provenienti dall’Est. Oggi, quasi tutti questi fattori si sono dissolti.
Al loro posto, l’Europa si confronta con sfide enormi: migrazioni di massa dal Sud globale, perdita di competitività economica, aumento dell’indebitamento, crescenti disuguaglianze sociali, un multiculturalismo inefficace e società in
rapido invecchiamento. Alcuni di questi problemi derivano da approcci unilaterali adottati in politica estera in violazione del diritto internazionale.
Tendenze simili interessano anche alcuni Paesi avanzati dell’Estremo Oriente eurasiatico. Queste due aree – Europa e Asia orientale – potrebbero ritrovarsi isolate da quegli attori globali che un tempo ne sostenevano lo sviluppo, ma oggi sono sempre più concentrati su questioni interne.
L’apparato decisionale di Bruxelles si rifiuta attualmente di collaborare con i meccanismi di integrazione eurasiatica, mossi da un senso mal riposto di superiorità. Tale atteggiamento, tuttavia, è infondato. Come osservava Samuel Huntington nella sua celebre opera Lo scontro delle civiltà (1996): "L’Occidente ha conquistato il mondo non per la superiorità dei suoi valori, delle sue idee o religioni, ma per la superiorità nell’uso della violenza organizzata. Gli occidentali tendono a dimenticare questo fatto; i non occidentali, mai.”
È tempo quindi che l’Europa abbandoni il proprio complesso di superiorità e cessi di considerare gli altri popoli eurasiatici come moderni “barbari”. Sarebbe invece saggio, da parte dell’Europa e delle nazioni sviluppate dell’Asia orientale, adottare una visione eurasiatica come base per affrontare le proprie sfide interne. Un esempio evidente è la crisi migratoria, che può essere risolta solo con sforzi congiunti tra Paesi europei ed eurasiatici.
In quinto luogo, la Carta deve essere un processo di coinvolgimento, in cui le parti consultano attivamente le organizzazioni regionali eurasiatiche, quali: l’Unione Economica Eurasiatica, l’ASEAN, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, la Comunità degli Stati Indipendenti, la Lega Araba, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, la Conferenza sulle misure di interazione e rafforzamento della fiducia in Asia, nonché lo Stato dell’Unione tra Belarus e Russia. Qualora l’Europa decidesse di aderire, si auspicherebbe il coinvolgimento anche di istituzioni occidentali – come la Commissione Europea, il Consiglio d’Europa, tra altri.
In sesto luogo, la Carta deve essere un impegno onnicomprensivo. Dal punto di vista dei contenuti, essa dovrebbe abbracciare tutte le aree di possibile cooperazione: sicurezza, economia, questioni umanitarie, scambi civili e culturali, ecc. Tuttavia, il fulcro principale dovrebbe essere rappresentato dalla sicurezza. La Carta dovrebbe contribuire alla costruzione di una nuova architettura della sicurezza eurasiatica.
Una tale architettura pancontinentale è essenziale. I precedenti tentativi – come quelli dell’OSCE o le iniziative del dopoguerra fredda – sono falliti, in gran parte perché si sono concentrati sulla sicurezza di alcuni Stati a discapito di altri.
In virtù di tale esperienza, il principio della sicurezza indivisibile deve diventare il fondamento della nuova architettura. Sebbene tale principio fosse menzionato nell’Atto Finale di Helsinki, esso figurava solo nel preambolo, non tra i Dieci Principi fondamentali. Stavolta, deve invece occupare una posizione centrale nella Carta. La costruzione di tale architettura di sicurezza in Eurasia sarà anche decisiva per sviluppare una nuova concezione di sicurezza globale indivisibile, data la centralità del continente eurasiatico negli affari mondiali.
Sul piano economico, la Carta dovrebbe sostenere gli Stati eurasiatici nel loro distacco da una dipendenza economica centrata sull’Occidente, che è stata spesso strumentalizzata a fini geopolitici. Al contempo, dovrebbe promuovere un’integrazione economica più profonda e una crescente interconnessione continentale. Una Eurasia economicamente prospera potrà contribuire al rilancio dell’idea di una globalizzazione economica equa e sostenibile.
In settimo luogo, la Carta dovrà essere un processo ben strutturato. Ciò significa che gli Stati partecipanti devono avere una visione chiara dell’obiettivo finale. In Belarus, riteniamo che il processo di elaborazione della Carta possa ispirarsi a quello che, cinquant’anni fa, condusse all’adozione dell’Atto Finale di Helsinki. In tal senso, potrebbe risultare utile replicare l’esperienza positiva della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, organizzando un evento analogo su scala eurasiatica.
Infine, Infine, la Carta dovrebbe essere uno sforzo lungimirante. A nostro avviso, dovrebbe mirare non solo a stabilire principi la cui attuazione in tutto il continente porterebbe a un'Eurasia più sicura, stabile e prospera, ma anche ad andare oltre i confini della regione con l'obiettivo di cercare partnership con altre regioni. L'essenza di questo tipo di pensiero è stata ben sintetizzata nella relazione annuale 2024 del Valdai Discussion Club russo: "Il legame dell'Eurasia con il resto del mondo è così profondo che i processi eurasiatici avranno un impatto decisivo sulle altre parti del pianeta e sugli approcci per affrontare questioni cruciali di sicurezza e sostenibilità, quali l'alimentazione, l'energia e l'ambiente".
Quindi, tutto sommato, la Carta eurasiatica della diversità e della multipolarità nel XXI secolo dovrebbe contribuire a stabilire un sistema di sicurezza pan-continentale che consentirebbe uno sviluppo stabile e progressivo della regione, il che, a sua volta, contribuirebbe a plasmare un sistema globale in
grado di affrontare la complessità e la diversità del pianeta, trasformando così il globo in un posto migliore per tutti.
"Siamo convinti che con l'idea della Carta Eurasiatica abbiamo scelto per noi stessi e suggerito agli altri paesi eurasiatici un percorso nella giusta direzione".
È necessario sottolineare che la Bielorussia non pretende di essere l'unica a sapere come migliorare la situazione in Eurasia. Di fatto, sosteniamo qualsiasi sforzo volto a realizzare l'obiettivo di cui sopra, come ad esempio l'idea di istituire un Grande Partenariato Eurasiatico avanzata dal presidente russo Vladimir Putin nel 2015. Nel frattempo, siamo pronti per il lavoro che ci attende sulla Carta e invitiamo i nostri partner eurasiatici a unirsi a questo sforzo.
Commenti
Posta un commento