REPORTAGE Viaggio nella Capitale bielorussa. Minsk, gli occhi sul Donbass e la rabbia Ue contro Mosca
Nella città dell’alleato di Putin si racconta la realtà delle regioni russofone dell’Ucraina e le vicende di chi non vuol sottostare al giogo del pensiero unico europeo
LA RASSEGNA CON IMMAGINI “PROIBITE”
LA DUE GIORNI organizzata
a Minsk è stata incentrata sul lavoro di videomaker, fotografi e giornalisti che
hanno raccontato le regioni di Donetsk e Lugansk, dove dal 2014 le forze
ucraine combattono contro la maggioranza russofona del Donbass. Lavori che non
oltrepassano la “cortina” dell’Unione europea.
Il tempo dei nostri eroi Il parterre del Festival del
documentario sul Donbass FOTO ANGELO D’ORSI
MINSK Chi si accinge ad andare a Minsk, Capitale della Bielorussia,
non ha aspettative alte. Ci si immagina una grigia uniformità “sovietica”,
mestizia sui volti della gente e difficoltà di comunicazione. E invece, quando
giungi, ti si presenta una città aperta, di due milioni di abitanti, con grandi
viali, piazze armoniose e tanto verde, begli edifici, vivaci locali tradizionali
e moderni. Semidistrutta nella guerra civile post-1917 e soprattutto nel
Secondo conflitto mondiale quando quel territorio fu una delle principali centrali
della resistenza russa, dietro le linee dei tedeschi che avanzavano (inutilmente)
verso Mosca. Perciò Minsk è stata insignita del titolo di “Città eroina”. Liberata
dall’Armata Rossa nel luglio 1944, Minsk e l’intera nazione bielorussa
conservano “eterna gratitudine” per i fratelli russi. Lo testimonia il Museo Nazionale
della Grande guerra patriottica che consente una full immersion storica
e fa intendere la forza del legame fra i due popoli.
Si dice, da noi, che la Bielorussia appartenga alle “autocrazie”,
contigua geograficamente e politicamente alla Federazione Russa, dominata dal
“dittatore” Lukashenko (al potere dal 1994 sempre confermato in regolari elezioni,
regolarmente contestate da Usa e Ue). Immaginavo un tripudio di scritte, cartelli,
manifesti inneggianti al vecchio Bat’ka (“padre” nel linguaggio
contadino: lui nasce agricoltore e si dedica tuttora come hobby alla coltivazione
delle patate, grande specialità bielorussa): invece nulla del genere, solo
pochi, non grandi ritratti, collocati in sedi tutto sommato dimesse. Non ho incontrato
un solo poliziotto per strada. L’eccezione è stata una guardia municipale che
si è avvicinata al gruppetto con cui mi accompagnavo, quando abbiamo attraversato
la strada col semaforo rosso: “Siete stranieri, vero?”. Al nostro timido “Sì”
ci ha fatto notare che il rosso vale non soltanto per le auto, ma anche per i pedoni.
Che non ci faceva la multa, ma ci ammoniva a non ricadere nella colpa!
A Minsk sono stato invitato a partecipare come commentatore al
Festival di cinema documentario sul Donbass, organizzato dalla Rete televisiva
russa Russia Today (uno dei primi bersagli delle nostre democraticissime “sanzioni”
che hanno la stessa filosofia del governo israeliano: impedire di conoscere la verità).
Con enfasi retorica comprensibile nel clima di guerra, il Festival, accolto nei
bellissimi locali della Biblioteca Nazionale, si intitola Il tempo dei nostri eroi:
gli eroi sono non soltanto i soldati, ma le centinaia di volontari spesso
stranieri che, rischiando la pelle, si sono recati negli ultimi dodici anni sul
posto, impegnandosi nel sostegno alla popolazione sotto il tiro di missili e
bombe di Kiev. Ma il loro volontariato è anche professionale, di addetti all’informazione:
uomini e donne che vanno in Donbass per documentare i crimini di Kiev con
cineprese, macchine fotografiche e il classico taccuino (come dimenticare il nostro
giovane Andy Rocchelli, trucidato nel 2014?).
NELLA NOSTRA PROPAGANDA, Putin è rappresentato come “massacratore
di civili”, a dispetto dei dati di fonte indipendente che registrano meno del 7%
di civili ucraini uccisi dai russi, e nel Donbass le vittime, nella stragrande
maggioranza civili, sono state circa 16 mila dal 2014 (senza contare che,
l’amico dei nostri governanti, Benjamin Netanyahu, ha sterminato finora oltre
65.000 abitanti di Gaza). Ebbene i film visti al Festival, basati sovente su
materiale girato da videomaker russi o stranieri (Stati Uniti, Germania,
Francia, Italia e altri…) mostrano come l’azione delle forze armate ucraine sia
stata deliberatamente indirizzata contro edifici pubblici non a carattere
militare, infrastrutture, scuole, centri di cura, dimore private.
Questi film in Europa non possono circolare, neppure in proiezioni
in circoli privati, in sedi di associazioni o partiti politici, a causa delle
“sanzioni”. Abbiamo evidentemente paura di una verità alternativa alla
narrazione “ufficiale”.
IL FESTIVAL, organizzato con una perfezione maniacale,
con momenti di relax, tra canti e balli, è stato un’occasione per approfondire,
al di là di Donetsk e Lugansk, lo stato di guerra della Russia, assediata dalle
sanzioni, circondata da Paesi ostili, minacciata da politici irresponsabili. Docenti,
giornalisti, interpreti, operatrici culturali mi fanno meglio conoscere le
vicende terribili, in corso tuttora, nelle due Repubbliche, le quali, detto per
inciso, mai e poi mai ritorneranno all’Ucraina. E bisogna che l’Occidente e
Zelensky se ne facciano una ragione. Quello che posso garantire è che per i
cittadini e le cittadine del Donbass l’arrivo delle forze armate russe, che noi
chiamiamo “occupazione”. è stata una “liberazione”.
Molto ho imparato sulle incredibili forme di censura, sulle innumerevoli
azioni di persecuzione messe in atto nei Paesi satelliti di Bruxelles e
Washington. Tre esempi fra i tanti: un giudice polacco, per non aver voluto sottoscrivere
un documento di condanna della Russia, dopo il 24 febbraio 2022, è stato
oggetto di mobbing nei suoi uffici fino a che si è sentito costretto a
rassegnare le dimissioni e lasciare il Paese. Immediatamente dopo è stato
processato in contumacia e condannato come spia della Russia e traditore della
Patria! Ora fa il giornalista a Minsk. Altro caso che ci tocca più da vicino:
una coppia mista, lui italiano lei russa, con doppia cittadinanza, dopo il
matrimonio, l’estate scorsa decidono di fare un viaggio in Sardegna e di attraversare
l’Europa con la loro automobile con targa russa. Vengono fermati in Germania, e
benché siano cittadini Ue e l’auto sia di loro proprietà, gli viene sequestrata,
così perdono anche i biglietti del traghetto per l’Isola. Alla loro domanda: “Che
fine farà la nostra vettura?”, ottengono questa risposta: “Verrà mandata in
Ucraina come tutti i veicoli sequestrati”. Ovviamente senza alcun indennizzo. Un professore lettone letteralmente fuggito
dal suo Paese, fa un appassionato intervento al brindisi finale spiegando che decine
di suoi colleghi sperano di fare come lui, per sottrarsi alla persecuzione contro
la sinistra, i russofoni, e i “russofili”. E infatti l’uso della lingua russa è
stato di fatto bandito come in Ucraina, dove lo è per legge; un esempio me lo
fornisce una ricercatrice che racconta di essere stata obbligata a riscrivere
di sana pianta la tesi di dottorato in lingua ucraina che, peraltro, come spiega,
non ha una ricchezza di vocabolario paragonabile alla russa, che lei aveva
usato essendo la sua lingua madre.
Follia nazionalistica, terrorismo, soprattutto stupidità:
perché al di là dei disagi e dei danni, tutte le sanzioni possono essere aggirate,
a cominciare da quelle sulle valute e le carte di credito. E i popoli si dimostrano
ogni giorno più scaltri e aperti dei loro governanti. Una lezione che le élite
occidentali faticano ad accettare.
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